Civita di Bagnoregio. Italiano - inglese

di Bormioli Piero, Cagiano de Azevedo Michelangelo

invia la pagina per emailcondividi su Facebookcondividi su Twitter
  • Prezzo: € 15.00
    Aggiungi Carrello

    Descrizione:

    pp.88 illustrato b/n Nel cuore della Tuscia, arroccata su un banco di roccia tufacea e collegata al mondo soltanto da un'esile strada, Civita di Bagnoregio si erge come una piccola isola tra le due vallate dei fiumi Chiaro e Torbido. È chiamata "la città che muore" e della sua vita antica, che affonda le radici nella cultura etrusca, rimane soltanto qualche lacerto di muro, un ciuffo nero di case, la piazzetta con i resti possenti delle colonne romane e la cattedrale. Ancora si respira l'aria delle coorti medioevali, facilmente si immagina il passaggio dei signori a cavallo, ma su tutto predomina il senso della fine di un'epoca, la certezza della scomparsa di un borgo antico. Questo libro, con le sue foto, testimonia la resistenza della Storia, della Pietra e dell'Uomo nei confronti dell'inevitabile disfacimento, resistenza o miracolo che sa di leggendario. Presentazione: Tutto quel che è rimasto - un ciuffo di case e di mura in rovina, nere sul tufo, erette come sul vuoto - respira oramai l'atmosfera della fine. L'unica strada, esile e bianca come un nastro, che congiunge al mondo di qua, alla terra ferma e sicura, il ciuffo nero di case, l'isolotto alto di tufo, sospeso in mezzo al mare delle crete e degli abissali «cavoni», sta per crollare... Sono andato ancora una volta a vedere, prima che sia troppo tardi... Entrai così, trasognato e smarrito, in mezzo alle case, come se non le avessi mai viste, come se non mi fossi fermato decine di volte a guardarle. E rividi la cattedrale ampia, a tre navate, costruita su un tempio pagano e poi rifatta in tempi più recenti; riascoltai, come se non l'avessi mai udito, il sacrestano che nella cattedrale fa vedere arredi e cofanetti d'avorio e messali di molto valore, e parla di un'altra chiesa che era al margine delle case, dove ora è l'abisso. E la piazzetta, davanti all'episcopio, era piccola; intima, serrata fra le case e orti, come era stata sempre; e la piazza grande, nel mezzo del borgo, aveva ancora i resti possenti delle colonne romane che pare servissero un tempo alle corse dei cavalli; e l'alto palazzo, che sorge su un fianco della piazza, aveva sempre le rampe delle scale così potenti e ampie, che non per gruppi di servi a piedi ma per coorti di signori a cavallo sembrano costruite... L'antico borgo è condannato. Pochi anni ancora... poi la fine è sicura... Che resta ancora, appollaiato sul tufo, circondato da tutte le parti solo dall'aria... È più miracolo che cosa vera, più leggenda che realtà. Il suo nome è antico e semplice: «Civita», senza aggettivi e senza altre specificazioni. Il suo posto, fuori dalle grandi vie di comunicazione, è nel cuore dell'Italia, cento miglia, o poco più, a nord di Roma; ma potrebbe essere anche il nome di altri borghi italici, sospesi a mezz'aria, fra corrucciati e gentili, solidamente realistici nell'aspra nudità vulcanica del tufo e delle crete, e insieme stranamente fantastici, quasi apocalittici, come se ne vedono ancora, qua e là, sui costoni dell'Italia appenninica. Ma ridiscendendo verso sera..., mentre le prime luci che s'accendevano tra le case nere pareva staccassero ancor di più l'antico borgo dal mondo, sentii anche che quell'attaccamento alla terra, alle case, alle mura in rovina - ridicolo agli occhi degli altri - era cosa nostra, italica, specie di certe borgate dell'Italia media, appollaiate in alto, scabre di sassi, dure a morire, perché tante morti e rinascite videro nei secoli. (Bonaventura Tecchi, Antica terra, ed. dell'Albero)