Faust! - DM, 1

di Carlo D’Urso

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  • Prezzo: € 15.00
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    Descrizione:

    In 8°, brossura editoriale in cartoncino martellato con bandelle, 94 pp.

    Abstract:
    Nato da chissà quale cronaca o leggenda, Faust aveva stabilito finalmente un dialogo tra Uomo e Satana. Egli mosse i suoi primi passi nel mondo grazie alla poesia di Marlowe e soprattutto con Goethe. Poi l’Uomo calpestò le religioni e, non potendo più invocare nessuna potenza celeste o infernale, cominciò a maledire se stesso. Oggi, Faust ha gli stessi dubbi, la stessa crisi e non riesce a colmare il vuoto della sua anima accumulato nei secoli. Questa è la storia di Faust. Semplice e atroce come un dubbio, come una vita.

    Indice:
    PREMESSA: Faust, storia e attualità di un mito, di Emiliano Ventura

    I. PROLOGO

    II. IL NATALE DEL MALE

    III. UNIVERSO CONCENTRAZIONARIO

    IV. SIRIO COSTELLAZIONE DI CASTITÀ




    FAUST, STORIA E ATTUALITÀ DI UN MITO



    Ho sempre avuto interesse per i progetti letterari non compiuti, molti gli esempi di celebri scrittori con taccuini colmi di idee non sviluppate, da Baudelaire a Mario Pomilio, piccole crisalidi letterarie che attendono il tempo della maturazione.
    Tra i tanti penso a Dino Campana che tra i suoi progetti mai realizzati aveva in mente di pubblicare un Faust. L’idea è stata ripresa e compiuta da Carlo D’Urso, autore di questa versione moderna del racconto faustiano. Sfogliando le pagine in prosa poetica sembra che vi si contentri un Aleph di miti, è un piccolo gorgo in cui arrivano correnti remote.
    Parte da lontano questo mito che incarna la tragedia della conoscenza; nell’antico testamento l’uomo viene cacciato dal Paradiso perché ha colto il frutto della conoscenza. Nell’era precristiana i Greci raccontano la punizione di Prometeo, colui che aveva osato consegnare il fuoco all’uomo, con questo gli aveva donato l’arte la teknè (tecnica) e la conoscenza; come “premio” Zeus lo lega alla roccia con un’aquila che gli mangia il fegato, la sua colpa è di aver insegnato all’uomo e di avergli consegnato un sapere.
    Varizioni di miti che tornaro nel pensiero cristiano che si afferma scalzando la cultura greco- romana, epoca tra le più travagliate e affascinanti, penso al racconto di Plutarco dove si narra di una voce che spande nel mediterraneo il grido: “Il grande Pan è morto”, indicando così la fine del mito e della cultura greca, l’aneddoto non è immune da un’idea di nostos, una nostalgia che non è priva di desiderio, per dirla con Luzi.
    Il cristianesimo si andava lentemente sostituendo nelle coscienze degli uomini, da culto perseguitato, o almeno minore, si andava trasformando in carnefice. Una volta approdato al potere si trasforma in quello che aveva combattuto, con un’acredine aumentata dalla frustrazione e dal fanatismo dei votati al martirio; su questo argomento Cioran nel suo Il Funesto demiurgo ha scritto pagine di sublime prosa filosofica.
    L’imperatore Giuliano, detto l’apostata, nel IV sec. d.C., aveva sperato nella restaurazione del culto, una morte precoce ha impedito il suo sostegno alla causa della filosofia e del mito greco. Come non provare ancora commozione di fronte alle parole di Libano nel suo In difesa dei Templi, dove chiede che vengano rispettati gli antichi culti e gli antichi dei.
    Ipazia, filosofa neoplatonica cresciuta nell’alveo dell’ellenismo alessandrino del V sec. d.C., è stata massacrata dai cristiani del vescovo Cirillo, fatta a pezzi con cocci e vetri, per ciò che il suo fervore di conoscenza rappresentava, la sua colpa era di insegnare e persegiure la ragione dei greci.
    Uno dei padri della chiesa, Tertulliano, afferma che dopo la venuta di Cristo non si deve più essere curiosi, tutto è stato rivelato, il naturale istinto di sapere viene castrato da questi chiosatori del ‘verbo’. Da quando si è affermato il culto e la morale cristiana, l’anelito della conoscenza ha seguito traiettorie sotterranee e carsiche, quasi a ritrovarsi nelle catacombe dell’ufficialità come avevano fatti i loro perseguitori.
    Non posso fare a meno di constatare in un quadro simile come sia di gran lunga preferibile, e auspicabile, rivolgere l’attenzione a coloro che si sono opposti a questa visione, vi è maggior ricchezza e simpatia per gli eretici che per i santi; Ireneo di Lione (II- III sec. d.C.) dice: ”gli eretici parlano come noi, ma pensano diversamente”, è quella diversità dall’ortodossia a rendere affascinate l’eretico.
    È da questo mondo tartaro e ctonio che emerge il mito di Faust, il proto ‘scienziato’ (Alchimista) che anela alla conoscenza, il mito proviene dalla Germania e da Wittenberg, una cittadina universitaria intorno a cui orbitano i nomi di Lutero, Amleto e Bruno.
    Ogni istituo di potere che sia religioso o politico, istituisce i suoi dogmi a cui ci si deve sottomettere, la pena varia dalle epoche e passa dalla morte all’isolamento, allo sberleffo e alla messa in ridicolo o alla damnatio memoriae di chi non si sottomette.
    Ridicolo è solo chi si crede depositoario di verità assolute, ridicolo è chi mette i libri all’indice, chi pratica censura. Eretico è etimologicamente colui che fa una scelta diversa, Faust per la conoscenza sceglie di dannarsi da solo, e non vi è scelta più assoluta e radicale.
    Quando Marlowe ne fa il protagonista della sua tragedia, la modernità del testo consiste nella scelta del protagonista, non un re o un personaggio storico, ma uno ‘scienziato’, uno che per amore del sapere non esita a cedere l ‘anima al diavolo.
    Il drammaturgo inglese scrive la sua tragedia in piena Controriforma romana, nell’epoca (il XVI secolo) che vede la Chiesa reagire alla Riforma Protestane iniziata da Lutero e da Calvino, il concilio di Trento stringe ancora di più il cappio dell’ortodossia, di lì a pochi anni molti moriranno sul rogo per non aver creduto ai dogmi, per aver cercato una libera filosofia. Se in Europa si tentano riforme e rivuluzioni, in Italia si attuano controriforme e questo la dice lunga sulla staticità, passata e attuale, del nostro paese. Significativa la tesi del filosofo Remo Bodei secondo cui il testo di Vincenzo Cuoco Saggio sulla rivoluzione napoletana (1799) una rivoluzione fallita, ha avuto in Italia molta più importanza che il Capitale di Marx.
    Questa figura che nasce in Germania ma ha echi nel mito di Prometeo, ha affascinato poeti e scrittori da Marlowe a Goethe, da Pessoa a Campana e questo la dice lunga sui nomi con cui ha deciso di misurarsi Carlo D’Urso.
    Il suo Faust è ancora figlio dell’epoca della crisi, ha fatto sua la denuncia di molti pensatori e poeti molti dei quali riconoscibili, affioranti come frammenti del naufragio della conoscenza e delle lettere: Byron e Nietzsche tra tutti sono i fari che ha seguito. Soprattuto il primo, il poeta inglese ha i tratti satanici del mito con il suo logorarsi fisicamente dalla passione della vita e delle lettere, come se un fuoco interiore lo avesse consumato anzitempo. Morto poco più che trentenne sui suoi organi interni furono ritrovati segni di consunzione tipica degli anziani. A Nietzsche si riconducono i continui riferimenti a Zarathustra resi pienemante nella scena del teatro.
    Il Faust di D’Urso cresce su questo terreno fertile e coltivato da secoli, lo scritto ha la duplice natura dell’uomo medievale, e i diversi significati della stessa letterartura che quell’epoca può essere definia oscura solo dall’ultimo degli stolti.
    Nessuno scalpellino intento alla costruzione delle cattedrali credeva di essere un semplice operaio o muratore, ma sapeva di essere geometra e alchimista; ogni artigiano, dal fabbro al dipintore, sapeva di essere stato iniziato a dei segreti per la sua arte, solo noi moderni ci siamo rassegnati ad avere una sola identità nella mediocre burocrazia del nostro operare.
    Così questo Faust può essere letto per diletto come se fosse un racconto gotico ottocentesco, e non mancano i richiami a questo genere, ma è soprattutto un’opera d’iniziazione (o controiniziazione) un cammino di conoscenza che principia proprio con una bevanda, da lì il lungo cammino di eroico furore che porterà Faust sì alla perdizione ma anche alla conoscenza, al rifiuto del suo stato asinino. I continui riferimenti al ‘libro’, all’opera dello scrittore in fieri, alla traduzione, lasciano indicare il processo di evoluzione e di crescita dello scrittore, del ricercatore e dell’uomo.
    È difficile trovare questa molteplice chiave di lettura nella coeva letteratura della chiacchiera e della cronaca, D’Urso attualizza ancora i quattro significati dell’opera letteraria di cui parlava Dante nella famosa epistola a Can Grande Della Scala. Per arrivare a tanto ha bisogno di più tecniche di scrittura, infatti il testo cambia registro in diversi punti e resiste bene nell’insieme (tra dialoghi, musiche eserghi e prose poetiche, trasporti di tempo, veglia e sonno) nella sua metafora di contro iniziazione, di rifiuto del presente, del suo essere Inattuale come i quattro scritti nicciani. È una forma mista di scrittura che trova nei contemporanei pochi esempi, penso a Teorema o alla Divina mimesis di Pasolini. Per presentarci questo mito che ha radici antiche che si protraggono nel Medioevo, D’Urso non ha altra via che usare una tecnica che proviene dagli stessi anni.
    Alla fine della lettura si percepisce l’eco confusa e persistente di una frase di Nietzsche: “Quasi duemila anni e nemmeno una nuova divinità!”, chissà per quale vaso comunicante tra il sacro e il profano, ma questa può essere un semplice suggestione dovuta alla vertigine dello scritto.
    L’attualità di questo mito risiede ancora nell’anelito di conoscenza, o nella tragedia della conoscenza, nella voglia, nonostante tutto, di continuare a fare ricerca.
    Oggi Faust, può essere il ricercatore universitario, colui che contro l’affiliazione alle sette, alle chiese, ai partiti continua a tentare una libera ricerca, per lui il Mefistofele ha il volto kafkiano dell’impiegato ministeriale che gli sottopone un contratto da fame (quando e se glielo sottopone) e da precario, non promette niente e non chiede niente in cambio, tanto il Faust odierno, il ricercatore, sa già di essersi dannato l’anima da solo. Tanto per ricordarci quanto sia statica la ricerca e di conseguenza la cultura in questo paese che si permette di chiamare i suoi inellettuali “culturame”.
    Emiliano Ventura